(Intervento preparato per il panel “La proposta del Terzo settore italiano per il governo dei fenomeni migratori”, all’Assemblea generale del Forum del Terzo Settore, Roma 27 marzo 2019)
Due anni fa Link 2007 pubblicava un documento che evidenziava la necessità di passare dalla politica del Viminale alla politica di Palazzo Chigi, collegiale, che affronti e tenga presenti, collegandole, le varie dimensioni del fenomeno migratorio, interne ed esterne. E che raccolga le proposte sensate e condivisibili che vengono dalle organizzazioni della società civile (Osc), da chi ha vissuto nella propria anima e nel proprio corpo, nei sentimenti e nell’impegno, l’incontro con chi emigra. Il FTS può e deve essere un soggetto primario per contribuire. La richiesta al presidente Conte di attivare un Tavolo inter-istituzionale aperto alle Osc, finalizzato alla definizione di un modello coerente di governo delle migrazioni, va in questo senso.
Lasciare la materia al solo ministro dell’Interno significa perderne la complessità, riducendo la politica migratoria a misure di contenimento e repressive. In assenza di altre credibili e convincenti risposte capaci di mostrare una visione complessiva del fenomeno migratorio rispondendo al tempo stesso alle paure e ansie che sono emerse negli italiani, questa repressiva ha rappresentato e continua a rappresentare una risposta che trova ampio consenso, pur essendo errata, limitata, non sostenibile.
Anche se i dati dimostrano il contrario, la percezione degli italiani è quella dell’invasione. Tale percezione non va sottovalutata ma va presa in seria considerazione, date le forti tensioni politiche e sociali sul tema, con le crescenti strumentalizzazioni, spesso a carattere xenofobo che le alimentano spaccando sempre di più il paese. Occorre investire meglio, in modo sinergico tra società civile, istituzioni e diaspore, in campagne di informazione capillari sulla reale entità del fenomeno migratorio, mettendo anche maggiormente in luce il contributo recato dai migranti all’economia, al welfare e alla società italiana, senza però sminuire le difficoltà che l’approccio emergenziale ed una presenza disordinata hanno suscitato.
Come conferma l’ISTAT (2016), l’8,3% della popolazione residente è costituito da stranieri, pari a 5 milioni sul totale di 60,6 milioni. Qualche paragone nei paesi Ue: Austria 14,4%, Belgio 11,7%, Germania 10,5%, Spagna 9,5%, Gran Bretagna 8,6%, Svezia 7,8%, Francia 6,4%. In Italia, più della metà, il 52,14%, sono cittadini di paesi europei, 19,69% asiatici, 7,49% latinoamericani, 20,63% africani; con la popolazione di cittadinanza italiana nettamente in calo (nati meno morti = -204.675) e solo in parte bilanciata dalla popolazione straniera residente (+62.852).
Cercando di suggerire in questi anni linee per una politica complessiva dell’immigrazione, uscendo dalle fasi emergenziali, LINK 2007 ha tenuto presenti due doveri dello Stato: 1) proteggere i propri cittadini, anche di fronte a paure prodotte da ingannevoli percezioni, vigilare i confini, regolare gli ingressi in modo corrispondente alle capacità, ai bisogni e alle possibilità di sana accoglienza e integrazione; 2) agire in coerenza con il senso di umanità, il dovere di apertura e solidarietà quando richieste da eventi particolari, i diritti umani, gli obblighi costituzionali e internazionali.
Di queste linee di politica complessiva evidenzierò brevemente cinque aspetti: – Apertura agli ingressi legali; – emersione dell’esistente e integrazione; – accordi con i paesi di provenienza e transito; – l’aiuto “a casa loro”; – transnazionalismo delle diaspore e cooperazione tra territori.
- Non ci può essere politica migratoria senza partire dall’apertura agli ingressi legali.
Le politiche governative da anni hanno bloccato gli ingressi legali, regolari, controllati, sicuri. Ci si limita ad un decreto flussi che annualmente stabilisce le quote di ingresso per il lavoro stagionale, quindi temporaneo (18.850 nel 2018), ed alcune limitate conversioni (12.000) di permessi di soggiorno, da stagionale, studio, formazione a lavoro autonomo.
La chiusura degli ingressi regolari non ha fermato l’immigrazione ma ha lasciato libero spazio a criminali e mafie internazionali che hanno ingannevolmente propagandato la facilità dell’emigrazione illegale, incentivandola e sfruttandola a proprio vantaggio. Il vero pull factor, il vero fattore di attrazione, è l’aver lasciato campo libero all’irregolarità e all’illegalità, senza alcuna volontà e forse capacità di governo dei movimenti migratori, subendo l’iniziativa dei criminali invece di contrastarla ristabilendo adeguati e ponderati criteri di immigrazione regolare. Proprio perché regolare, ordinata e sicura, non incentivata dalla criminalità, essa non sarebbe affatto un’invasione, come non lo è stata negli anni passati; permetterebbe poi una migrazione circolare, con la possibilità di regolati ingressi e uscite dal territorio, spesso con un duplice effetto positivo per l’Italia e il paese di origine; ma soprattutto toglierebbe spazio a criminalità e mafie mettendo un freno efficace agli ingressi illegali e alle morti in mare e nelle rotte di terra.
Procedere con misure di polizia o militari per il controllo dei confini non impedirà l’illegalità se al contempo non si stabiliscono adeguati criteri di immigrazione regolare. E’ una delle priorità per potere uscire dalla fase emergenziale e disordinata che l’Italia ha vissuto e per potere dare inizio ad attive, condivise ed efficaci politiche di integrazione. Non tutti gli immigrati fuggono dalla guerra, dalle calamità, dalla fame. Occorre prenderne atto. Stabilire regole precise nel rispetto dei diritti umani e della dignità della persona è la via maestra per permettere un’adeguata accoglienza e integrazione a chi realmente ha bisogno di aiuto e protezione oppure risponde a necessità lavorative del nostro paese, tenendo anche presente la bassa natalità e l’invecchiamento degli italiani.
- Emersione dell’esistente, piena integrazione, cittadinanza
Emersione. Qualsiasi strategia politica dovrà prevedere una regolarizzazione di quanti ad una certa data lavorano o studiano in Italia o che abbiano avuto un lavoro o occasioni di lavoro nell’ultimo biennio, togliendo quindi dall’irregolarità, su base individuale, tutti coloro che sono integrati o più facilmente integrabili. Occorre farli emergere, anche con temporanei benefici fiscali per i datori di lavoro che regolarizzano. Si tratta di un provvedimento indispensabile, altrimenti non si risolve nulla e alcune centinaia di migliaia di persone continueranno a rimanere irregolari e “non visibili”, con i rischi che ne possono conseguire in termini di sfruttamento, di precarizzazione, di isolamento, di condizioni favorevoli alla criminalità, di sicurezza o i propaganda politica. Chi perde l’occupazione non dovrà in alcun modo essere considerato irregolare. Si alimenterebbe solo una dinamica di irregolarità, precarietà, illegalità che va evitata garantendo un congruo periodo di tempo per la ricerca di un nuovo lavoro, insieme agli ammortizzatori sociali previsti.
Integrazione. La storia ci insegna che quando la forbice dell’inclusione si allarga troppo, emarginando, discriminando, negando diritti basilari ad ampie fasce di popolazione, le società entrano in crisi. Vale oggi più che mai. La necessità di politiche e azioni finalizzate all’inclusione (sociale, educativa, economica, politica) non vale solo per gli immigrati ma per tutti i cittadini in posizione di fragilità, marginalizzazione, quando non di vessazione. La nostra Costituzione, all’art.3, è chiara. Ogni artificiale distinzione che escluda e discrimini chiunque sia nel nostro paese è da bandire. L’inclusione e l’integrazione strutturata, superando definitivamente la dimensione emergenziale, garantiscono maggiore legalità, controllo e sicurezza. Serve di più prevenire che condannare alla galera persone costrette alla devianza da situazioni di marginalità e fragilità in cui si sono trovate e che potrebbero moltiplicarsi. Data l’ampiezza del problema, servirà un impegno congiunto delle istituzioni e delle organizzazioni della società civile. Il volontariato e il lavoro professionale delle Osc impegnate nel sociale è e rimarrà indispensabile.
Occorre recuperare il ritardo accumulato da tutti i governi e avviare politiche che favoriscano l’integrazione degli immigrati, anche valutando quelle messe in atto con successo in altri paesi. E’ necessario in particolare ampliare e rafforzare i servizi generali per tutta la popolazione residente (asili, scuole, ambulatori, abitazioni, centri culturali, sportivi e di aggregazione sociale ecc.), evitando per quanto possibile azioni a favore dei soli immigrati. Senza sottovalutare la dimensione religiosa: solo con il pieno riconoscimento, il rispetto e l’integrazione in particolare dei musulmani e il coinvolgimento delle associazioni che li rappresentano, con cui dobbiamo saper dialogare, può essere più facilmente attuata e gestita la repressione di quanti strumentalizzano la fede a fini terroristici ed eversivi. Anche la particolarità italiana che, normalmente, non vede concentrazioni ghettizzanti di immigrati nelle realtà urbane ma piuttosto una diffusione delle presenze abitative è da favorire e rafforzare.
Cittadinanza. E’ stato un errore interrompere l’iter di approvazione della legge alla fine della scorsa legislatura: un voto di fiducia sarebbe stato un atto, certamente utile, di chiara connotazione politica. Come è stato e continua ad essere un errore chiamarla ius soli, perché non è così, non è mai stato proposto alcun automatismo nelle opzioni legislative. Anche ius soli temperato non esprime la positività di questo atto, che invece deve essere espressa. Si tratta di ius culturae o meglio, a nostro avviso, di ius communitatis, basato sul senso di appartenenza alla comunità con la presa di coscienza dei diritti e dei doveri che ne derivano. Occorrerà, andando anche contro corrente, riprendere e valorizzare il cammino di cittadinanza – che sarà italiana ma al tempo stesso europea, ricordiamolo – e occorre farlo in modo continuativo e non solo di fronte ad eventi straordinari. La cerimonia di formale riconoscimento della cittadinanza non dovrà mai ridursi ad un atto semplicemente amministrativo ma dovrà essere preparata ed esaltata. L’introduzione del diritto di voto alle elezioni amministrative potrebbe rappresentare un passo importante nel cammino di integrazione e di cittadinanza. Oggi è impossibile ma deve entrare nelle nostre opzioni politiche.
- Accordi con i paesi di provenienza e di transito
Mentre il dovere di soccorrere e salvare vite umane non può mai venire meno, l’accoglienza deve, a nostro avviso, tener conto delle effettive capacità di accoglimento, essere regolata, gestita in modo che di vera accoglienza si tratti e non di umiliante, perdurante e rischioso ‘parcheggio’. Anche la regolamentazione degli ingressi per lavoro, studio od altro legittimo motivo deve corrispondere a criteri analoghi basati su approfondite analisi delle necessità e delle possibilità. Regolamentare gli arrivi è una scelta politica che porrebbe problema solo se, nell’attuarla, venissero ignorati i principi costituzionali di giustizia, solidarietà, rispetto della dignità e del valore di ogni persona.
La via intrapresa dall’Italia e dall’Ue di specifici accordi con i paesi di provenienza e di transito è quindi appropriata ma andrebbe rafforzata e perfezionata in una prospettiva di lungo termine, non a prevalente senso unico come qualche governo europeo vorrebbe ma a reale vantaggio reciproco, con positive ricadute sulla popolazione di quei paesi. Rispetto dei diritti umani, protezione dei migranti, lotta al traffico e allo sfruttamento, assistenza e tutela delle vittime, scambio di informazioni, identificazione delle persone, consenso ai rimpatri e modalità di ri-accoglimento sono alcuni degli impegni che tali accordi devono prevedere, insieme alla formazione dei corpi di sicurezza e delle strutture giudiziarie, la lotta alla corruzione, la pluralità dei sostegni finanziari, economici, di cooperazione allo sviluppo ed la costruzione di partenariati duraturi nel tempo, volti anche a rafforzare la stabilità e la democrazia delle istituzioni. Sarebbe meglio che tali accordi siano studiati e conclusi coinvolgendo l’UE e gli altri Stati membri interessati. Per non essere a senso unico, che sarebbe vissuto giustamente come insopportabile dai paesi partner, gli accordi dovrebbero contenere anche possibilità e modalità per un certo numero di ingressi regolari in Italia e in Europa e per l’apertura eventuale di corridoi umanitari a favore di persone in grave pericolo.
- “L’aiuto a casa loro”
Nel 2009, dopo la seconda conferenza nazionale sull’immigrazione, ho preso l’iniziativa di scrivere una lettera all’allora segretario federale della Lega Nord, Umberto Bossi, invitandolo a prendere sul serio, con coerenti provvedimenti, la proposta da lui lanciata di “aiutarli a casa loro”. La lettera non ha mai avuto risposta né si è mai visto alcun atto che trasformasse lo slogan propagandistico in una coerente ed efficace proposta attuativa che puntasse per esempio a destinare lo 0,7% del PIL a questo scopo, come stabilito a livello internazionale. Lo slogan è rimasto slogan e tale va considerato.
I dati ci mostrano che nei paesi di immigrazione le comunità provenienti dalle zone più povere del mondo sono sottorappresentate. Anche in Italia, le più ampie presenze provengono da Romania (1,15 milioni), Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Moldavia, Bangladesh, Egitto, Perù, Sri Lanka, Pakistan (tra 400 e 100 mila, a scalare), mentre dai paesi più poveri le provenienze sono limitate. Poche migliaia infatti i cittadini di Sudan, Sud Sudan, Repubblica centrafricana, Congo, Ciad, Niger, Guinea, Mali, Burkina Faso, nonostante le condizioni nettamente peggiori rispetto ai primi. Per emigrare alcune condizioni sono normalmente necessarie ed in particolare: essere consapevoli di volerlo e poterlo fare ed avere l’intraprendenza e i mezzi necessari per riuscirci. Emigra chi può permetterselo, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze, salute, istruzione o di legami con persone che già l’hanno preceduto. Paradossalmente, nel caso in cui la cooperazione raggiungesse i propri obiettivi contribuendo a creare sviluppo nei paesi più poveri, è molto probabile una parallela crescita dell’emigrazione, almeno nel breve-medio periodo. L’uscita dall’estrema povertà e l’acquisizione di maggiore benessere economico e culturale favoriscono, infatti, le condizioni per potere immaginare, desiderare e realizzare l’emigrazione. Questo risultato evidenzia ancora una volta la complessità del rapporto tra gestione delle migrazioni internazionali e politiche di cooperazione allo sviluppo. Le migrazioni possono avere anche ricadute negative sui processi di sviluppo, in particolare a causa del brain drain, ‘perdita dei cervelli’, cioè dell’emigrazione di capacità e professionalità che sarebbero indispensabili per lo sviluppo. Paesi come il Ghana hanno perso il 60% dei medici formati nei decenni scorsi, con evidenti ricadute sulla qualità e sostenibilità del proprio sistema sanitario. O come la Somalia e l’Eritrea che, a causa dei conflitti interni o dell’oppressione, hanno visto fuggire medici, docenti, professionisti, amministratori pubblici. Ma si può trattare anche di “perdita di braccia” dovute all’abbandono delle campagne, dell’agricoltura, della cura dei suoli con conseguenti dannosi impatti ambientali.
La legge 11 agosto 2014, n. 125, approvata dal Parlamento con il consenso di tutte le forze politiche dopo quasi vent’anni di dibattiti, ha riformato il quadro concettuale e normativo della cooperazione allo sviluppo, aggiornandolo alla luce della realtà geopolitica del XXI secolo in un mondo radicalmente cambiato, introducendo novità importanti. Eccone alcune: i) il passaggio dall’ “aiuto ai paesi in via di sviluppo” alla “cooperazione per lo sviluppo” con paesi e soggetti partner, a beneficio ed interesse comuni e reciproca responsabilità, in una visione di interdipendenza, pari dignità e sostenibilità, pur garantendo l’aiuto per le situazioni che ancora necessitano di forti presenze solidali; ii) il riconoscimento della piena appropriazione (ownership) dei processi di sviluppo da parte dei paesi partner; iii) la promozione dei diritti umani, la prevenzione dei conflitti, la pace, lo sradicamento della povertà, le pari opportunità, la riduzione delle disuguaglianze; iv) il rafforzamento del sistema paese e la valorizzazione delle competenze e capacità di iniziativa dei soggetti pubblici e privati, profit e non profit, sulla base del principio di sussidiarietà.
E’ necessario rafforzare la cooperazione internazionale per lo sviluppo inserendo, tra le priorità, investimenti che rafforzino l’iniziativa imprenditoriale locale e creino posti di lavoro stabili e dignitosi, il miglioramento delle condizioni di vita, il soddisfacimento delle aspettative educative e formative dei giovani, lo sviluppo e il rafforzamento di istituzioni democratiche e virtuose, in una visione e programmazione di lungo periodo. E’ importante il coinvolgimento e l’iniziativa delle imprese nei partenariati, insieme alle Osc.
I programmi e i progetti di cooperazione allo sviluppo potranno affiancare gli accordi e i partenariati in materia migratoria in modo da valorizzare ogni possibile sinergia, ma non dovranno mai essere confusi con essi, potendo le due finalità essere complementari ma non sostitutive l’una dell’altra. Occorre severamente seguire quanto il Parlamento ha deciso in materia di cooperazione allo sviluppo con la legge 125/2014 che definisce precise finalità e chiari obiettivi ed esplicita i soggetti e gli strumenti che ne garantiscono la qualità e l’efficacia.
Raddoppiare le risorse. L’Italia, l’Ue e gli stati membri dovrebbero quanto prima, e nonostante le difficoltà, tendere mediamente al raddoppio delle risorse destinate allo sviluppo e agire in modo coordinato con i paesi partner per rendere efficaci e duraturi gli interventi di cooperazione. Le sole parole e gli inviti ai paesi più poveri e di emigrazione non possono bastare: creare sviluppo costa, così come assicurare maggiore equità e maggior benessere e istruzione, garantire sicurezza, prevenire. Occorre prendere atto che gli attuali livelli degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo sono ben lontani dall’essere sufficienti di fronte a così ampi obiettivi. Eppure, questi impegni finanziari rappresentano, se ben finalizzati, un serio investimento per il futuro dei paesi partner e nostro.
- Dal transnazionalismo delle diaspore alla cooperazione tra territori
Il transnazionalismo degli immigrati, che mostrano spesso una spiccata iniziativa imprenditoriale investendo sia qui da noi che nei propri paesi di origine – pienamente integrati, quindi, pur mantenendo legami stretti con le comunità di origine – può favorire iniziative di co-sviluppo a livello territoriale, coinvolgenti comunità immigrate e pubbliche amministrazioni in Italia e comunità e amministrazioni pubbliche nei territori di origine, qui e lì, ad interesse reciproco e come segnale di rispetto, dialogo e collaborazione a pari dignità. Accordi quadro di partenariato tra le due amministrazioni regionali potrebbero favorire specifici accordi di cooperazione che coinvolgano le realtà economiche, culturali, imprenditoriali, sociali dei due territori, a reciproco vantaggio e a maggiore integrazione delle comunità immigrate.
Partendo dalle novità introdotte dalla legge 125/2014 e facendo tesoro dell’esperienza passata, emerge con evidenza un approccio che poggia su due pilastri complementari. Da un lato il concetto di co-sviluppo, inteso come frutto di una cooperazione che, anche quando è dono, si basa su rapporti di parità, reciprocità di interessi e di benefici. E’ il co-sviluppo che può guidarci verso azioni efficaci di cooperazione coinvolgenti gli stessi immigrati residenti in Italia, in un cammino di partenariato con i paesi e le regioni da cui provengono. Dall’altro lato, la realtà territoriale, che ne è la dimensione più appropriata: quella delle regioni e grandi aree urbane dove risiedono le comunità immigrate, dove si sono organizzate, radicate, hanno stabilito rapporti con le istituzioni e le organizzazioni sociali e produttive, hanno costruito famiglia, interessi, business, continuando al contempo a mantenere legami vivi e attivi con le realtà di origine.
Pur essendoci interessanti esempi di dinamismo transnazionale, in alcune comunità immigrate, non è ancora sufficientemente approfondito il ruolo che gli immigrati, nelle realtà diasporiche organizzate, possono avere nelle politiche e nei programmi di cooperazione allo sviluppo dei paesi in cui risiedono, come l’Italia, da realizzarsi con i paesi di origine, in una visione di co-sviluppo
Rilevanza andrebbe data in particolare alle realtà di immigrati che hanno avuto successo nel nostro paese e che mantengono interessi e rapporti con quello di origine. Va ricordato in proposito che su 6 milioni di imprese operanti in Italia, ben 600.000 sono condotte da soggetti nati all’estero (10% del totale) con forte tenuta anche in periodo di crisi. È il transnazionalismo degli immigrati che deve essere valorizzato, la loro capacità di essere, di vivere e di sentirsi radicati qui e lì, concependo la globalizzazione innanzitutto come multilocalismo, a misura d’uomo, di comunità, con l’assunzione cosciente e arricchente di identità plurime. Partendo dal protagonismo dimostrato nell’avvio di partenariati transnazionali di alcune organizzazioni delle diaspore, possono essere avviati percorsi di co-sviluppo aperti all’intera dimensione territoriale nelle due realtà transnazionali, quelle italiana e quella della regione di provenienza, coinvolgendo ogni attore potenzialmente interessato. Il transnazionalismo degli immigrati può diventare l’occasione per un transnazionalismo dei territori capace di costruire relazioni di partenariato negli ambiti di reciproco interesse: sociale, culturale, economico, commerciale, istituzionale. Se in una regione è fortemente presente e radicata, per esempio, una comunità marocchina (o senegalese o egiziana o ecuadoriana o altra) che negli anni ha mantenuto rapporti con la regione di origine, un’ampia cooperazione tra le due regioni, qui e lì, non è solo possibile ma è anche una reciproca opportunità, da non sottovalutare.
Non si tratta di individuare “un” progetto (questo è un po’ il limite odierno), ma di costruire un processo bilaterale tra amministrazioni duraturo, costante, coinvolgente le realtà territoriali, disegnando un insieme di relazioni e attività a reciproca utilità: non solo tra immigrati residenti e comunità di origine, ma anche tra organizzazioni dei due territori, tra università e università, cooperative e cooperative, tra associazioni di impresa e tra imprese, tra istituti di credito, tra realtà sociali, sindacali e culturali, professionali e così via, per un co-sviluppo vero, duraturo, alla cui base ci siano i principi e l’etica della cooperazione, del partenariato, dei diritti umani, della giustizia, insieme ai reciproci legittimi interessi e vantaggi, anche a garanzia della continuità del rapporto di partenariato.
Sono solo cinque punti, tra i tanti che occorre tenere presente per una politica migratoria complessiva che superi le paure e le strumentalizzazioni e sia di beneficio alle nostre società e a quelle dei paesi partner con cui cooperiamo. Come FTS siamo chiamati ad approfondirli affinché il nostro paese e l’Europa si arricchiscano di una politica coerente in materia di migrazione e di sviluppo.