Mia relazione sui sequestri di persona al seminario sulla sicurezza, a margine della Conferenza degli Ambasciatori. Sala Conferenze internazionali, Farnesina, 19 Dicembre 2008
Vorrei innanzitutto rivolgere un appello ai media perché le crisi, in particolare quelle umanitarie, entrino maggiormente e con più regolarità nell’informazione scritta e parlata. Comunicare le crisi significa infatti garantire il diritto all’esistenza di intere popolazioni. Nel nostro mondo basato sulla comunicazione “esiste” solamente chi riesce a comunicare. Spesso i media italiani ignorano o toccano svogliatamente situazioni che riguardano il destino di decine, centinaia di migliaia di persone che hanno un estremo bisogno di far conoscere la loro sorte e che invece, col silenzio dei media, “non esistono”, non viene loro riconosciuto il diritto di esistere. Di alcuni paesi poi si è letto e visto moltissimo: quante pagine sull’Iraq tra il 2003 e il 2006, ma che cosa è stato comunicato di quel paese? Per la gran parte non si è parlato di Iraq o di iracheni, ma di presenza italiana in Iraq. Lo stesso vale in parte per l’Afghanistan, e per altre simili realtà. E’ una riflessione che vorrei indirizzare ai direttori delle testate: quel diritto all’esistenza, quel diritto ad essere considerati notizia, è infatti – e purtroppo – spesso subordinato alla valutazione: “si vende o non si vende”. Nel 60° anniversario della dichiarazione dei diritti umani è una triste constatazione.
Intersos è un’organizzazione umanitaria che opera nei contesti di crisi. Abbiamo seguito direttamente sia sequestri che hanno coinvolto nostri operatori e operatrici (Cecenia, Iraq) sia sequestri che hanno riguardato altre organizzazioni, in particolare quello di maggio-agosto 2008 in Somalia. Abbiamo acquisito una certa esperienza, non tanto sul come risolverli, dato che ogni sequestro è diverso dai precedenti, ma certamente sul come gestirli qui in Italia rispetto all’opinione pubblica e quindi ai media, alle famiglie e alle istituzioni vicine ad esse, alle persone che si preoccupano e che sentono il dovere di mobilitarsi e scendere in piazza, agli stessi rapitori che con internet possono conoscere ormai ogni mossa e ogni commento, al messaggio pubblico da far arrivare nei paesi del rapimento e agli stessi rapitori. Ci siamo fatti un’idea dell’importanza che ha assunto la comunicazione nella gestione dei sequestri, anche confrontandoli tra di loro: da quelli in Cecenia a quelli in Iraq (Simona Pari e Simona Torretta con Mahnaz Bassam e Ra’ad Ali Abdulaziz e successivamente Giuliana Sgrena), in Afghanistan (Clementina Cantoni e Daniele Mastrogiacomo, Ajmal e Sayed Agha), in Somalia (Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini con Abdirahman Yusuf, e ora suor Caterina Giraudo e suor Maria Teresa Olivero).
La prima nostra esperienza è stata nel 1996 in Cecenia dove Augusto Lombardi, Giuseppe Valenti e Sandro Pocaterra, due chirurghi e il capo-missione di Intersos, sono stati rapiti per 64 giorni. Abbiamo assunto direttamente la gestione del sequestro e la ricerca delle persone, con l’attiva partecipazione di Adriano Sofri, (amico di uno dei rapiti e conoscitore della regione avendola girata per un servizio giornalistico). Abbiamo ritenuto utile che l’appoggio istituzionale degli Esteri, Unità di Crisi e Ambasciata a Mosca, pur preziosissimo, rimanesse esterno, perché volevamo mantenere un profilo molto basso rispetto ai rapitori. Ai media è stata chiesta discrezione. E’ stata rispettata e noi, alla ricerca dei rapiti, ci siamo sentiti rispettati. A questo rispetto è corrisposto il nostro impegno ad assicurare periodicamente le informazioni che riuscivamo ad avere. Abbiamo ritenuto doveroso gestire direttamente anche il rapporto con le famiglie, tornando dalla Cecenia ogni 20 giorni per tenerle informate.
Nel sequestro delle operatrici e operatori umanitari in Iraq, sia “Un Ponte per” che Intersos hanno invece deciso il contrario: si è capito fin da subito, infatti, che le Istituzioni in quel periodo, con la forte presenza italiana e internazionale nel paese, potevano meglio di noi ottenere risultati. Io stesso mi sono recato a Baghdad durante il sequestro, anche per essere vicino alla famiglia della nostra operatrice Mahnaz. Comunicando con Fabio Alberti di “Un Ponte per” ci siamo resi conto che i contatti che stavamo seguendo coincidevano con quanto si stava seguendo a livello istituzionale. A quel punto abbiamo lasciato fare, fidandoci e affidandoci alle istituzioni italiane.
E’ stato il sequestro più mediatizzato e con più coinvolgimento sociale e politico, poco dopo quello altrettanto mediatizzato e coinvolgente dei quattro bodyguards Salvatore Stefio, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Fabrizio Quattrocchi. C’è stata molta strumentalizzazione politica, sia nell’uno che nell’altro caso. E’ stato forse inevitabile, ma non è certo una bella cosa. Qui andrebbe recuperata una dimensione etica, che consigli almeno di rimandare a dopo la liberazione le strumentalizzazioni e i commenti sulle persone.
La molta mediatizzazione ha influito sull’esito del sequestro? Non sono riuscito a darmi una risposta convinta. Per le due Simone mi sembra che non abbia influito gran che, né in meglio, né in peggio, quasi che la realtà del sequestro andasse per conto suo, indipendentemente dai media e dalle mobilitazioni. Il dubbio mi rimane per il caso dei bodyguards: in quel caso la mediatizzazione è stata reciproca, da un lato i filmati e i messaggi dei rapitori, dall’altro le nostre reazioni, scritte o filmate, che comunicavano un messaggio che rendeva gli ostaggi sempre più preziosi.
Una terza tipologia riguarda contesti di crisi conosciuti dalle organizzazioni umanitarie, di grande difficoltà e poco accessibili, talvolta con una situazione politica e sociale completamente diversa rispetto a solo pochi anni prima, con riferimenti nuovi e spesso inaffidabili, quindi gestibili con difficoltà dalle istituzioni. Parlo del caso Somalia, dove sono stati rapiti Iolanda, Giuliano e Abdirahman, operatori di Ong (e ora le due suore Caterina e Maria Teresa). Abbiamo seguito molto da vicino il sequestro, tra il 21 maggio e il 5 agosto scorsi, e alcune indicazioni, frutto di quest’esperienza, ci sembrano di particolare interesse.
Si è trattato di un sequestro che richiedeva, a nostro avviso, una stretta sinergia – ovviamente senza confusione dei ruoli – tra più soggetti: noi Ong (con la conoscenza del paese e i nostri legami con la realtà somala di oggi), l’Unità di Crisi del Mae (e per il suo tramite l’Ambasciata, il Ministro, la Presidenza del Consiglio), l’Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna, Aise. Si tratta di un rapporto che, per tutta la fase del sequestro, sarebbe dovuto essere molto stretto. Lo è stato tra Ong e Unità di Crisi; mentre lo è stato di meno, anche se c’è stato ed è stato positivo, tra Ong e Aise. Nel primo caso è scattato il necessario rapporto di reciproca fiducia, tanto che si stanno definendo congiuntamente, tra Ong e Unità di Crisi, regole di comportamento sulla sicurezza nelle crisi; nel secondo caso è prevalsa invece la prudenza (“ma queste Ong che razza di realtà sono? meglio non fidarsi troppo”). Passabile, se non ci fossero di mezzo vite umane. Pur avendo personale altamente preparato l’Aise, come tutti noi, non ha la scienza infusa, può anche basarsi su partners inaffidabili (1996 Cecenia e probabilmente oggi Somalia) e fare valutazioni che sarebbe meglio confrontare con chi conosce la realtà e l’attualità del paese.
Le Ong rappresentano spesso l’unica presenza italiana, con discreta conoscenza del territorio e dei problemi. Sono una risorsa, purtroppo sottovalutata. Proponiamo un modo di operare nuovo, sinergico, con la condivisione dei diversi punti di vista, tra Istituzioni nelle loro articolazioni e Ong (attraverso un loro delegato), data la particolare complessità e imprevedibilità dei contesti in cui avvengono i rapimenti. Non ci sono ricette precostituite: in simili situazioni è necessario procedere in modo coordinato mettendo insieme le conoscenze della realtà fino al massimo dettaglio possibile, la valutazione quotidiana delle informazioni e dei fatti e le intuizioni.
Nel rapporto con i media abbiamo seguito alcune linee di comportamento che l’esperienza ci ha man mano confermato, almeno per quanto riguarda i sequestri di breve-medio periodo e che non hanno motivazioni esplicitamente politiche. Per quelli politici e per quelli che durano molti mesi e talvolta anni, il discorso può essere molto diverso. Se per la Betancourt è stato giusto adottare quel tipo di modalità mediatica e di supporto politico, lo stesso può risultare controproducente in sequestri come quelli che abbiamo conosciuto noi in questi due decenni. Mi limito ad alcune osservazioni e avvertenze.
1) Il dovere di informare e il dovere di contribuire all’integrità della vita e alla liberazione delle persone non possono essere scissi. I media e i singoli giornalisti dovrebbero – e normalmente è così – tenerlo sempre presente, anche nel rapporto con le istituzioni preposte alla gestione della crisi.
2) Occorre prendere coscienza che i sequestri saranno sempre più una realtà di queste parti di mondo al di fuori di ogni reale ed efficace controllo: affrontarli accusando di superficialità operatori umanitari, turisti, religiosi ecc. che si trovano in quei contesti è non solo ingiusto ma non corrisponde alla realtà. Le suore non erano in Somalia e sono state rapite lo stesso. I turisti nel basso Egitto erano in aree frequentate da tempo da turisti di varie nazionalità; gli operatori delle organizzazioni umanitarie rispondono innanzitutto all’ ”imperativo umanitario”, al dovere di portare aiuto, ma al tempo stesso al dovere di tutelare i propri operatori, applicando grande prudenza, severe regole per la sicurezza e piani di evacuazione precisi, in un rapporto costruttivo con le Agenzie umanitarie Onu e l’Unità di Crisi della Farnesina. Non dimentichiamo che la presenza delle Ong è anche presenza dell’Italia in quei paesi, spesso l’unica, apprezzata e apprezzabile perché porta un messaggio di solidarietà, di partnership e di pace.
3) Il riserbo e la prudenza andrebbero presi come regola generale nel caso dei sequestri di persona. Non è necessario uno specifico codice etico: basta il buon senso e la creazione di un dialogo basato sull’ascolto e sulla fiducia reciproci tra media e istituzioni. Mi permetto di segnalare, a titolo esemplificativo, alcuni comportamenti che andrebbero evitati. Ci sono giornalisti che, non potendo verificare le informazioni, si fidano di quelle ricevute. Nel caso somalo sono così state dette cose non vere: a che pro? Forse non sono nocive, ma disturbano, in particolare le famiglie che già vivono in uno stato di angoscia. Talvolta si tratta anche di notizie vere, relative ad esempio alla salute dei sequestrati: ma quale dovere di informazione spinge a renderle pubbliche? Ancora una volta, sono i parenti a vedere accresciute le loro preoccupazioni. Alcuni giornalisti cercano di seguire loro piste per avere contatti diretti con i rapitori, senza alcun collegamento con le istituzioni che se ne occupano: è la cosa più grave; si tratta di protagonismo, o forse di buona volontà mal esercitata, che può però essere fatale.
4) Nel caso dei sequestri a scopo di estorsione, siamo convinti che sia necessario il “silenzio stampa”. L’informazione diventa infatti uno strumento che può favorire, e molto, i rapitori. Non si tratta di rinuncia al dovere di informare (sia da parte istituzionale che dei media), ma dell’accettazione di farlo dando assoluta priorità alla salvezza delle persone, facendo severo riferimento alle istituzioni, possibilmente con lo spirito di reciproca fiducia di cui si è parlato. Abbiamo potuto constatare che la gente è la prima a capire la necessità di tale “silenzio” e ad accettarlo. Per il sequestro di Iolanda e Giuliano è stato fondamentale. Il MAE e le Ong l’hanno chiesto e abbiamo reagito con decisione quando non è stato rispettato, trovando – occorre riconoscerlo – attenzione e ascolto. Qualche testata si è giustificata parlando di trepidazione per la sorte dei sequestrati. Preoccupazione ovviamente condivisa, ma occorre sapere che il silenzio non significa che nessuno si stia muovendo. Significa anzi dare la possibilità a chi lo sta facendo, di poterlo fare nel modo migliore senza dover al tempo stesso prestare attenzione a svianti pressioni e a umori politici e sociali.
5) Con il “silenzio stampa” occorre però, a nostro avviso, che forme di pressione e di “controllo” continuino comunque ad essere esercitate sulle istituzioni preposte alla soluzione dei sequestri. Abbiamo constatato che è utile far sentire una certa pressione, in forma discreta e rispettosa ma continuativa. Cosa può significare in concreto? Nel caso di sequestro di operatori umanitari, saranno le rappresentanze delle Ong ad esercitarle, come abbiamo fatto durante il sequestro di Iolanda e Giuliano; nel caso di lavoratori, saranno le rappresentanze delle imprese; nel caso di turisti le rappresentanze delle agenzie, eccetera. La tensione, le difficoltà, talvolta le divergenze sulle modalità di gestione possono divenire per tutti (anche per le istituzioni) tali da spingere a rallentare, prendere le cose con un po’ più di calma: ma tale rallentamento e tale calma, nei sequestri, non sono permessi.
6) Va infine evitata l’interpretazione politica in chiave tutta italiana. Si è affermato che, se le piazze non si sono mobilitate per Iolanda e Giuliano (Somalia) è perché i sequestrati “non appartenevano ad alcun movimento politico, con la loro opera in Africa non intendevano rappresentare alcuna posizione politica, insomma non interessavano politicamente a nessuno”. Non è così. O comunque non è così per chi si sta occupando realmente di gestire il sequestro. Non ci sono sequestrati di serie A e di serie B, Unità di Crisi di serie A e di serie B. C’è solo un approccio che può variare da caso a caso, perché studiato, perché ritenuto conveniente per l’unico fine che deve guidare tutti: la salvaguardia della vita e la liberazione degli ostaggi.
I contesti di crisi sono molti e sono diversi l’uno dall’altro. Andrebbero studiati, verificati, analizzati, interpretati, capiti. Se ancora vent’anni fa un’inchiesta giornalistica veniva svolta con questi criteri e in un tempo adeguato a poterli pienamente applicare, oggi al giornalista sono concesse poche ore e la “caccia alla notizia” è guidata da una concorrenza spietata tra le Agenzie. Il rapporto tra media e istituzioni, al fine della gestione delle crisi, difficilmente potrà svilupparsi in modo proattivo se non viene sostenuto da momenti di incontro, di conoscenza e di formazione che coinvolgano attori dell’informazione, attori istituzionali, attori presenti e operanti nelle crisi. Solo così, forse, può costruirsi quel rapporto di fiducia che, senza confusione di ruoli e nella propria autonomia, predispone all’attenzione e al rispetto delle rispettive esigenze e rispettive mission. Condizione essenziale per una corretta gestione delle crisi, che lasci comunque intatto lo spazio di libertà dell’informazione.