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24 Mar 2006

Le emergenze e gli interventi umanitari nella cooperazione internazionale allo sviluppo

Intervento alla “Convenzione nazionale dell’Ulivo sulla Cooperazione allo sviluppo”

Firenze 24 marzo 2006

 

Emergenza, interruzione di un processo di sviluppo

Una componente particolare della cooperazione allo sviluppo, la più acuta, è rappresentata dagli interventi per rispondere alle gravi emergenze. In ogni paese infatti, specie se povero, una catastrofe naturale o lo scoppio di un conflitto armato interrompono in modo traumatico un processo di sviluppo, pur debole che sia, minando spesso le già fragili capacità di sopravvivenza delle popolazioni. Per questo la risposta alle emergenze umanitarie, pur esigendo un approccio specifico e proprio, non può essere affrontata in modo separato dalla più ampia azione di cooperazione allo sviluppo e di lotta alla povertà. Anche perché le cause di fondo delle crisi spesso possano essere ridotte con adeguate politiche di sviluppo, con relazioni economiche e commerciali più eque, con il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, con una maggiore partecipazione democratica e, in definitiva, con una convinta solidarietà dei paesi più ricchi nei confronti dei più poveri basata sul principio della giustizia.

In pericolo sono “esseri umani”

Molte sono state e purtroppo continuano ad essere le emergenze che in molti paesi distruggono o rovinano le infrastrutture e i beni familiari e feriscono nel corpo e nell’animo centinaia di magliaia di persone, fino a causarne la morte. Persone che perdono tutto, persone in fuga, senza speranza se non quella che gli giunge dall’esterno dove spesso sono obbligati a fuggire, persone private della propria dignità, alla ricerca di protezione perché in balia di eventi le opprimono, di bande armate o di approfittatori, talvolta oggetto di pulizie etniche o religiose, di tentativi di annientamento.

Imperativo umanitario, non subalterno né condizionato ad altri interessi e finalità politici

E’ da affermare con forza che intervenire nelle emergenze umanitarie a soccorso delle popolazioni in pericolo non può essere un optional. Né può essere una decisione soggetta a valutazioni di opportunità o funzionale ad altri interessi, finalità e calcoli della politica. Siamo infatti davanti alla vita e alla morte delle persone, di fronte a cui esiste solo l’imperativo umanitario. Questo imperativo impone che la comunità internazionale – attraverso l’impegno degli Stati – intervenga: subito, sempre e con risorse adeguate. L’umanitarismo è infatti soprattutto umanità, che viene prima della politica. Non deve più succedere che di fronte a una catastrofe come lo tsunami si intervenga con ampi finanziamenti e coinvolgimento dei media e della società civile e solo un anno dopo, di fronte al terremoto nel Kashmir, domini il silenzio, il disinteresse, come se le popolazioni pakistane e indiane non valessero nulla. Ne va della dignità politica dell’Italia, come di ogni paese, e della credibilità delle Istituzioni internazionali.

Specificità dell’intervento di emergenza e specifica struttura per rispondervi

Per rispondere alle emergenze umanitarie, non bastano la buona volontà e la generosità che fortunatamente gli italiani sanno esprimere in ogni occasione, se sollecitati. Si tratta infatti di rispondere subito ed efficacemente a bisogni primari e immediati: riparo, acqua, cibo, salute, protezione, tutela dei più deboli e indifesi come i bambini, gli anziani, le donne sole, i portatori di handicap. Non si tratta di beneficenza ma del diritto di ricevere l’aiuto, diritto alla vita con dignità, e della doverosa solidarietà che gli Stati innanzitutto, prima ancora dei cittadini, devono esprimere nei confronti delle popolazioni colpite. Si tratta del dovere umano, prima ancora che morale, sociale, politico, di fornire loro l’aiuto di cui hanno bisogno in modo rapido ed efficace e con interventi di qualità che rispettino la dignità della persona. Non si tratta solo di fornire acqua, per fare un esempio, ma di saperne fornire almeno quindici litri al giorno per persona; non si tratta solo di distribuire cibo, ma di distribuirne in quantità e tipologia che corrisponda almeno a 2000 calorie al giorno; non si tratta solo di dare un riparo, ma di farlo favorendo il ricongiungimento dei nuclei familiari, delle parentele, delle affinità e garantendo decoro e rispetto; non si tratta di fare qualsiasi cosa, ma di identificare strategie di intervento appropriate, che coniughino atteggiamento professionale e atteggiamento umano e non siano basate sull’improvvisazione.

Occorre quindi prevedere, all’interno delle strutture della cooperazione allo sviluppo, una specifica entità che abbia la primaria responsabilità degli interventi di emergenza e sappia rispondere con immediatezza ed efficacia alle situazioni di crisi umanitaria. Essa dovrà essere vincolata solo ai principi umanitari e al diritto internazionale umanitario. Umanità, imparzialità, assenza cioè di qualsiasi discriminazione di razza, fede, sesso, nazionalità, neutralità, ovvero nessuna subalternità a convinzioni politiche o religiose né strumento di altri disegni politici, indipendenza e autonomia delle scelte.

Attori da coinvolgere e necessaria professionalità

Data la loro ampiezza e gravità, le emergenze umanitarie richiedono il coinvolgimento di tutti i soggetti dotati delle capacità e professionalità necessarie. Il tutto in un’azione il più possibile coordinata, a livello internazionale e a livello italiano, valorizzando la specificità di ciascun attore a seconda del tipo di emergenza da fronteggiare: dalle professionalità della stessa Cooperazione Italiana, al Dipartimento della Protezione civile che oggi è l’unica struttura che ha i mezzi e le capacità per rispondere con immediatezza alle catastrofi naturali gravi, terremoti e inondazioni in particolare; alla Croce Rossa Italiana, che dovrà comunque riqualificarsi per essere finalmente fedele ai principi umanitari sanciti dal proprio movimento internazionale; alle Ong umanitarie che in questi anni hanno acquisito capacità e professionalità riconosciute a livello internazionale e che sanno coniugare, pur nei loro limiti, emergenza, assistenza, protezione, valorizzazione delle capacità locali, pacificazione e riavvio dello sviluppo; ad altre forme preparate e organizzate delle Autonomie locali e della società civile, anche per stabilire ponti tra la nostra società e quella dei paesi colpiti.

La Protezione civile saprà rispondere con immediatezza ed efficacia al primo momento di alcune emergenze ma non ai momenti successivi, perché non è finalizzata né orientata agli interventi di protezione umanitaria, di ricomposizione del tessuto sociale, di ripresa del dialogo, di pacificazione, di ricostruzione e riavvio dei processi di sviluppo. Va evidenziato che alcune Ong italiane hanno acquisito in questi anni – e sono forse l’unico soggetto ad esserci riuscito – la capacità di gestire le difficoltà del contesto in cui operano: il pericolo, l’emotività, la pressione dell’urgenza, la violenza, il confronto con società instabili e comunità destrutturate, la mancanza di infrastrutture e servizi, l’assenza di autorità e riferimenti pubblici. Le Ong stanno inoltre imparando, come è richiesto da un umanitarismo consapevole e responsabile, a leggere la politica, i comportamenti dei militari, le sensibilità di genere o religiose, le dinamiche familiari, i rischi sanitari, le problematiche del conflitto, i meccanismi economici dei contesti di crisi.

L’intervento ”umanitario” non può confondersi con l’intervento “militare”

Le Ong umanitarie non accettano di diventare strumenti della politica o, peggio ancora, essere occasione di giustificazione della guerra. Non faranno sconti a nessun governo su questo punto. Respingiamo la guerra come strumento per la soluzione dei conflitti. Oltre alle conseguenze devastanti immediate sulla popolazione civile, la guerra ha dimostrato di non riuscire a risolvere i problemi, ma soltanto di modificarli, quando non di peggiorarli. Essa è la chiara evidenza del fallimento dell’iniziativa politica e dell’incapacità o della mancanza di volontà di intervenire in tempo utile prevenire i conflitti con mezzi e risorse adeguati.

Pur non escludendo a priori la possibilità dell’uso delle armi da parte di Istituzioni legittimate all’uso della forza nei casi in cui si sia dimostrata fallimentare ogni altra iniziativa di pressione e azione politica ed economica, rifiutiamo il concetto di “intervento militare umanitario” o peggio ancora di “guerra umanitaria”, data l’impossibilità di conciliare l’azione e i principi umanitari con l’uso delle armi.

E’ necessario che venga definita una netta distinzione tra interventi umanitari e interventi militari, fossero questi anche di puro mantenimento della pace. Il linguaggio, in questi casi, è anche sostanza e deve essere assolutamente appropriato. Occorre che agli interventi armati sia quindi data la giusta definizione, senza ambiguità e possibilità di confusione, chiamandoli con il loro vero nome: intervento di protezione, di mantenimento della pace, di separazione dei contendenti, di imposizione del cessate il fuoco ecc., evitando così ogni confusione con l’intervento umanitario che è senza armi, senza altri interessi, basato sui soli valori e principi di umanità, sul diritto all’aiuto, sulla presenza quotidiana e solidale con le persone in pericolo. Si tratta di un punto di estrema importanza e attualità. La nuova strategia militare considera infatti che anche l’azione umanitaria, direttamente gestita dai militari, debba far parte del “proprio mestiere”, per rendersi amiche le popolazioni, contenerne il sentimento ostile, ottenere più facilmente informazioni utili. È sempre stato così, ma ora la dimensione assunta è esageratamente ampia, esplicita, talvolta concorrenziale con le stesse organizzazioni umanitarie, creando confusione e crescente difficoltà all’indispensabile riconoscibilità dell’azione umanitaria. La chiarezza della distinzione dei ruoli e delle attività è indispensabile e urgente. È in gioco, infatti, la stessa sopravvivenza dell’azione umanitaria, quale dovere umano imparziale, indipendente e neutrale, strumento solo del dovere di umanità e non di posizionamenti o tatticismi politici o militari. La netta distinzione è necessaria anche per ragioni di sicurezza, che richiedono che l’operatore umanitario non venga mai confuso dalle popolazioni, in nessun modo, con il militare. Sarà solo su queste basi di chiara e riconoscibile distinzione dei ruoli che potranno essere ipotizzate appropriate forme di collaborazione tra l’umanitario e il militare nei contesti di crisi.

Nino Sergi

Nino (Antonio Giuseppe) SERGI. Presidente emerito di Intersos, che ha fondato nel 1992 e di cui è stato segretario generale e presidente. In precedenza, dal 1983 fondatore e direttore dell’Iscos-Cisl, istituto sindacale per la cooperazione allo sviluppo. Nel 1979 direttore del Cesil, centro solidarietà internazionale lavoratori, fondato con le comunità di immigrati a Milano. Operaio e sindacalista. Tra gli anni '60 e '70 formatore in Ciad. Studi di filosofia in Italia e di teologia in Francia.
Onorificenze: Commendatore, Ordine al merito della Repubblica Italiana (27 Dicembre 2022).
(Gli articoli di questo blog esprimono sia posizioni personali che collettive istituzionali i cui testi ho scritto o ho contribuito a scrivere. Possono essere liberamente ripresi)